LA SOLITUDINE
V’era un gran silenzio: oltre il silenzio, il buio.
Nel nulla erano sospesi come ad un sostegno i miei pensieri più crudeli. Non riuscivo neppure ad immaginare come tali pensieri potessero sorgere nella mia mente, ma ciò che m’appariva ancora più strano, era quell’altalena che mi conduceva dall’uno all’altro pensiero, che accarezzava ora l’uno ora l’altro proposito. Ed ipotizzavo forme di delitti perfetti, per quanto fossi convinta che essi non esistessero, dato che l’infallibilità non è qualità che si addice ad un uomo. Io però non ero che la vittima di tanta presunta violenza, non il soggetto ma l’oggetto. Dovevo aver sentito parlare da qualche parte di delitti perfetti o perlomeno dovevo averne visto una forma alla televisione, ma quelle scene viste in tempi, forse remoti, da me stessa o sentiti narrare da qualcuno davvero competente in materia, ora si presentavano in maniera diversa, poiché da impersonali divenivano personali, in quanto da me stessa vissute.
Oltre quei pensieri doveva sussistere il ricordo, ma il ricordo non reggeva, per quanto tentassi al buio di concentrarmi. Sentivo solo una fitta alle tempie, acuta ed atroce, che io ritenevo fosse da imputare al notevole sforzo fatto nel voler ricordare.
Ma ricordare che cosa? Poi mi chiedevo.
Forse non c’era nulla da ricordare poichè il passato perdeva valore ora al mio sguardo, in quanto lasciava trapelare in se stesso il senso del finito. Ciò che contava era solo il futuro in quanto implicava una responsabilità ancora più cosciente se si voleva ammettere che, col passare del tempo, l’uomo realizza progresso. Ma il futuro aveva il suo valore più prezioso nel fatto che significava speranza, anche illusione, promessa di ottenere di meglio e di più. Non si poteva vivere contemplando un passato che si era verificato in un certo modo, rifiutandosi di continuare a costruire, ma bisognava condurre i propri passi in avanti, proiettarsi in alto, senza volgersi indietro, poiché il destino non ci concede nemmeno una pausa.
Stasi significa solo morte.
In avanti l’orizzonte era infinito ed inconscio: era il nulla. Ma al nulla potevo dare un volto, o cento volti diversi; potevo conquistare quel nulla, variarne la forma, percepirne i molteplici contenuti, controllarne i progressi e i regressi nel suo continuo divenire. Ed a quel divenire io potevo dare un senso logico,così come potevo collegare le varie fasi con un moto cieco e istintivo. Il nulla, proprio perché inconscio, potevo conoscerlo, interpretarlo. Non sarebbe stata più la stessa cosa se avessi premuto l’interruttore e avessi acceso la luce: sarebbero scomparsi gli orizzonti che io mi figuravo nel nulla, il nulla stesso avrebbe perso la sua essenza, per fissarsi in un’unica forma ed acquistare una sembianza che si sarebbe conservata per sempre identica e rigida.
Il silenzio camminava ovattato lungo il mio corpo, sulle mie membra indolenzite, sulle mie palpebre, mi solleticava le ciglia che lottavano contro il sonno: no, non potevo addormentarmi, avrei perduto la conoscenza delle dimensioni dl mondo. La casa scricchiolava sotto i passi del silenzio, tremolavano le pareti, ruggiva, ma in modo soffocato, il tempo che scorreva come su di una lamiera arrugginita.
Non potevo addormentarmi. Un respiro si faceva sempre più vicino. Mi rannicchiavo nel mio letto ed il cuore mi batteva forte, diviso tra l’emozione e la paura. Mi rannicchiavo come un fuggiasco nel rifugio improvvisato in un rovo selvaggio. Sentivo la presenza di quell’essere che si faceva sempre più insistente, ma non avrei potuto giurare che si fosse trattato di un essere umano. Però si sentiva uno schioccare di labbra, come tese a raccogliere una parola sfuggita, poi un brivido mi sfiorava la pelle ed io ero tesa come una corda; il brivido scendeva lungo la schiena, il freddo si impossessava di me, piano piano, tremavo come una foglia in balia del vento, scricchiolavo come una vecchia ciabatta e quello scricchiolio era simile a un lamento di morte.
Non abbandonatemi! Avevo gridato all’improvviso, ma a chi l’avevo detto?
Era diventata immensa la mia stanza e quelle parole gridate con pietà avevano lacerato l’aria, avevano dato vita ad un’eco senza fine.
Non abbandonatemi! Avevo ripetuto, ma stavolta le parole erano uscite flebili e s’erano spente in un gemito.
Non c’era nessuno; ero sola, perciò era inutile chiamare aiuto, era inutile illudersi che qualcuno accorresse. Perché qualcuno doveva venirmi in aiuto? Come avrei potuto io convincere gli altri a porgere attenzione alla mia esistenza? Mi ponevo in ascolto: i passi si erano acquietati, ma non sapevo se si erano fermati ad un certo punto della stanza o erano tornati indietro, da dove erano venuti. Sospiravo e mi sentivo rasserenata: era tutto finito.
Non facevo in tempo a finire quel pensiero, che mi sentivo chiamare. Come risuonava lontana quella voce…
Ma non poteva poi essere tanto lontana, altrimenti non sarebbe giunta al mio orecchio in un tono così forte e così chiaro. Però c’era una certa dolcezza in quella voce, non dovevo avere paura. E soprattutto non dovevo cercare di darle una sembianza. No non potevo pensare ai fantasmi. Sapevo benissimo che non esistevano, o forse mi sbagliavo? Sin da bambina non avevo creduto alla loro esistenza. Mi avevano sempre detto : i fantasmi non esistono. Ed io avevo accettato una tale asserzione, perché in fondo non avevo mai visto i fantasmi. Quindi per me era un dogma credere alla loro non esistenza. Non m’era mai stato provato che esistessero, ma nemmeno il contrario, cioè che non esistessero. Essi avrebbero anche potuto essere nascosti nelle profondità della terra o nei cieli, ma ora in quella oscurità ed in quel silenzio non potevano essere loro, non potevano presentarsi in una tale situazione e in un momento in cui il tormento mi trapassava l’anima come un coltello.
Mi inorridiva quel pensiero e con furia mi avvolgevo nel lenzuolo, coprendomi la testa e gli occhi per non vedere il nulla e l’oscurità che parevano minacciarmi, quell’immensità che mi spauriva, credendo quasi che, impedendomi di vedere, avrei potuto bloccare così anche i miei pensieri.
Pura illusione…
Era straordinario accorgermi come i pensieri si aggirassero vorticosi, minacciando addirittura di schizzare fuori dalla mente, sentivo che più pensieri contrastanti si intricavano, non riuscivo più a controllare il loro moto e quel passaggio fulmineo da un oggetto a un altro, da un essere a un altro, ritornando poi sul primo oggetto, unendoli tra di loro sulla base di un’unica trama, per dare vita come ad un romanzo.
La testa mi doleva, allora provavo a sollevarmi dal cuscino, ma non riuscivo a tenerla ferma, essa girava follemente, freneticamente, sempre con maggiore velocità, poi andavo a sbattere contro un muro e all’improvviso tutto cessava.
Rimanevo lungo tempo a fissare il vuoto, ormai priva di ogni pensiero, liberata dal tormento, dalle voci, da presenze estranee,ormai dimentica del mio stesso esistere.
Così giungeva il sonno recando il velo dell’oblio; ma non ero io ad addormentarmi, bensì il mondo a me circostante, il mondo più contiguo. Io lo vedevo gradualmente scomparire, come assorbito o inghiottito da un qualcosa dotato di maggiore potenza; si trattava di un gioco di energie e quel qualcosa non doveva certo possedere più energia di me, altrimenti anch’io sarei stata dissolta. Invece, io ero lì intangibile e indisturbata, a scrutare il tutto ma in maniera distaccata.
Pareva che un senso di pace ora avesse ristabilito in me l’antico equilibrio, ma in realtà mo dominava perché aveva calcolato con cura meticolosa il punto esatto in cui sarei crollata di nuovo nei miei timori o sarei rimasta imbrigliata in un labirinto senza uscita, o non avrei trovato scampo, incatenata, io pezzo singolo con gli altri singoli pezzi nell’insieme di un mosaico.
Ed infatti, dopo una tenue resistenza, crollavo di nuovo nel mio stato di paura, allorchè sentivo quella stessa voce. Ma ora essa aveva un tono più lugubre. Volevo scappare ma avevo l’impressione di essermi immessa in una spirale senza ritorno. Così scoppiavo a piangere: ero terrorizzata. Di nuovo pensavo ai fantasmi. Li sentivo avvicinarsi, trascinarsi come portassero pesanti catene di ferro alle caviglie. Volevo chiudere gli occhi come per scacciare una brutta visione, ma non c’era nulla da fare.
Nel frattempo i fantasmi si erano avvicinati ulteriormente. Volevo gridare ma suono alcuno usciva dalla mia bocca. Temetti di aver perduto la voce.
Allora anziché intimorirmi di più , prendevo coraggio, guardavo in avanti: erano loro, i fantasmi. Ma non erano come io li avevo spesso immaginati, avvolti in lenzuoli bianchi; al contrario erano vestiti di nero. Parevano involucri trasparenti e nella loro trasparenza c’era una sagoma fatta di nulla.
Racimolavo quel po’ di forza che mi restava per concepire un pensiero: io non dovevo temere i fantasmi, perché essi non erano che involucri entro i quali dimorava il nulla ed io al nulla potevo dare cento forme diverse, potevo attribuire infiniti contenuti.
Il nulla mi poteva ispirare i sentimenti più svariati. Il nulla poteva essere la mia salvezza.
E se ero stata invasa dal timore, la colpa era tutta di quella maledetta solitudine che mi aveva accerchiata, mi aveva stretta nelle sue spire.
Una solitudine con la quale troppo tempo avevo convissuto, una solitudine che da tempo aveva preso il sopravvento su di me e riusciva a comandare anche i miei sogni. Una solitudine dalla quale dovevo a tutti i costi allontanarmi.
racconto scritto negli anni ottanta
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